Immaginatevi una notte siciliana. È estate e la luce del tramonto ha
perdurato a lungo, saldamente aggrappata ai bordi della notte come un
bambino che non vuole lasciare la gonna della madre.
Il sole ha riarso la
terra, il mare e le facciate delle case per tutto il giorno, ma anche
ora che è buio il suo calore si percepisce: lo si sente uscire dalle
pietre e dalle pareti come le quiete vampe di un falò.
La casa di via
Mirabella è immersa nel silenzio, come tutte le sue sorelle di
Ortigia: corridoi e stanze bui, attraversati da una lieve brezza che
parla di mare. L’unico rumore proviene da una pendola che scandisce
i secondi con un severo ticchettio, un suono quasi da marcia
militare.
Nella stanza, il
ragazzo dorme. Le sue membra asciutte e scurite dal sole della
Sicilia risaltano contro il bianco del materasso e appaiono disposte
in una sorta di triscele. L’afa notturna l’ha indotto a spostarsi
varie volte, ammucchiando il lenzuolo leggero in fondo al letto, ma
non l’ha svegliato.
Ha consumato
l’intera giornata correndo e giocando con gli amici: è stremato.
La spettrale luce della luna piena attraversa le sottili tende
gonfiate dagli umidi refoli di vento tiepido, che proiettano sul
corpo sudato del ragazzo un’ombra diafana. Quella stessa algida
luce bagna il letto e una porzione della stanza, ma lascia in ombra
la parete opposta, che per contrasto appare più oscura che mai, come
se il buio – per sfuggire a quel pallido lucore – si fosse
ritirato tutto laggiù.
È lì che la figura
emerge. Alta ed esotica, definita ma al contempo traslucida, come una
sagoma scolpita nel cristallo o nel fumo.
In qualche modo,
seppur profondamente addormentato, il ragazzo deve aver captato
quella presenza, poiché i suoi occhi, dapprima quieti, hanno preso a
scattare e guizzare sotto le palpebre chiuse.
La figura resta
immobile per una manciata di istanti, i suoi contorni che si fanno
sempre più nitidi, poi inizia a muoversi verso i piedi del letto, in
direzione del ragazzo che prosegue a dormire. Non sembra camminare: è
più come se scivolasse attraverso l’aria. Non emette alcun suono,
né di passi né di respiro.
Entra nell’alone
perlaceo di luce lunare eppure nessuna ombra si proietta dal suo
corpo alto e solido.
Sul materasso, il
ragazzo bofonchia nel sonno: sul suo viso largo si contorce
un’espressione di nervosismo, come se nella sua mente si agitassero
le grottesche visioni di un incubo.
Intanto, la figura è
arrivata ai piedi del suo letto. Si china in avanti, lenta, senza
fretta, osservando il ragazzo che si gira da una parte all’altra,
inquieto.
Due lunghe braccia
si sollevano, terminando con mani enormi, le dita contratte simili
agli artigli di un falcone; calano in basso, verso i piedi nudi del
ragazzino. Le mani, con una mossa simultanea, si avvolgono attorno
alle sue caviglie, bloccandole saldamente.
Sopra il materasso,
l’adolescente si contorce, ostacolato dalla presa della figura. Si
agita e bofonchia parole turgide di sonno, prima che qualcosa dal
profondo della sua mente gli faccia notare che la pressione che
avverte alle caviglie non è un sogno, bensì è decisamente reale.
Gli occhi del
ragazzo si spalancano, incontrando quelli dell’uomo ai piedi del
suo letto.
Per cinque, forse
dieci secondi non accade nulla. Le tende leggere si tendono come vele
nella brezza notturna, la luce della luna rende tutto incolore e
onirico.
La cosa che il
ragazzo osserva è troppo strana, troppo incoerente per essere vera:
è un uomo gigantesco, con la pelle di un intenso color cannella, i
muscoli forti e le cicatrici che solcano il suo corpo nudo fino alla
cintola, coperta da una fascia alla quale è sistemata una specie di
spada ricurva.
La pediera del letto
impedisce al giovanotto di vedere oltre, ma il poco che indovina gli
somministra una scarica di orrore che lo ridesta del tutto: i
vaporosi calzoni bianchi dell’uomo sono vistosamente imbrattati di
una sostanza che, anche sotto quella luce poco generosa, presenta un
vivido color sangue.
Il volto
dell’apparizione è affilato, inghirlandato di folta barba scura,
ornato di un naso lungo e curvo come il becco di un’aquila; da
sotto una kefiah che gli nasconde la testa e parte della fronte,
ardono due occhi che sembrano contenere l’inferno: vi si contorcono
liquide luminescenze rosse e brillanti fulmini arancioni.
Al ragazzo fanno
riaffiorare il ricordo di un’eruzione notturna dell’Etna. Ancor
più sconcertante e spaventoso è il rendersi conto che la figura,
per quanto possente, e per quanto la presa che esercita sopra i suoi
piedi sia fisica, appaia in qualche modo evanescente. Lo sguardo del
ragazzino può indovinare attraverso di essa i contorni dell’armadio
e della scrivania, visti come dietro un blocco di vetro scuro.
Il gigante spalanca
la bocca incorniciata di barba ed emette un lamento sfiatato, un
gemito mostruoso che si solleva, simile al vento di burrasca, gravido
di odio, minaccia e rabbia; a questo punto, il terrore che fino a
quel momento aveva trasformato in pietra le membra del giovane, si
tramuta in un’abbagliante scarica elettrica che lo induce a
schizzare fuori dal letto, strillando.
La paura gli scorre
fino alle dita come aghi di ghiaccio nel sentire la callosa, energica
stretta delle mani dell’intruso che – come ferro – gli
intrappolano le caviglie, ma un attimo dopo la stretta svanisce e il
ragazzo, mezzo correndo e mezzo ruzzolando, si getta fuori dalla sua
camera, il luogo che fino a pochi istanti prima reputava più sicuro
al mondo, e attraversa urlando il corridoio fino alla stanza dei suoi
genitori, trovandoli già svegli e in allarme per il trambusto.
Il sonno è finito
per tutti loro: madre, padre e figlio… non si può riprendere sonno
dopo che il Saraceno è venuto a fare visita.
Le rassicurazioni
della madre e del padre confortano appena il ragazzino ancora
sconvolto dal più grande spavento della sua vita, ma i suoi genitori
non sono spaventati, non più del necessario.
In cuor loro hanno
sempre saputo che, presto o tardi, anche la loro dimora sarebbe stata
teatro di quello che già a molti altri nel circondario era capitato:
lo chiamano tutti il Saraceno, ma non c’è modo di sapere chi sia
né da dove venga; i suoi indumenti e il suo aspetto lo identificano
come un antico soldato arabo, magari facente parte delle incursioni
musulmane del VII secolo.
I vecchi vociferano,
sempre a voce molto bassa e se la notte era tarda, che il Saraceno
infesta i dintorni della Graziella poiché il suo corpo, o quanto ne
resta, giacerebbe sepolto senza riti funebri da qualche parte,
nascosto e dimenticato in qualche oscuro luogo nell’ipogeo della
città.
Al ragazzo tutto ciò
è stato spiegato, quella notte. I genitori gli dicono che il
Saraceno, per quanto potesse apparire spaventoso e feroce, non prova
rabbia verso chi va a trovare, ma è furioso con il suo stesso
destino, un fato che lo aveva strappato alla sua terra, portato a
morire in un’isola lontana, dove per tutti era il nemico o dove
nessuno aveva pregato o pianto per la sua morte, la quale, al pari
del suo nome, era stata dimenticata.
L’unica prova che
sia mai esistito sono le sue sporadiche apparizioni, la pallida
manifestazione dell’ombra dell’uomo che era stato.
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