Ero seduto. Sembrava una sedia piuttosto ordinaria, di quelle che
troveresti in una qualsiasi cucina di fascia media o medio-bassa. Ma
eravamo sul marciapiedi, vicini al ciglio della strada: un po’ come
quello che avviene nelle serate dei paesi siculi, in cui si cerca un
minimo di refrigerio anche in questo modo; dall’illuminazione
sembrava pomeriggio inoltrato (ma non vicini al tramonto).
C’era qualcuno
sulla mia destra, quasi accanto a me: una figura irreale della quale
percepivo l’ombra. Però non stavo guardando questa persona: il mio
sguardo era rivolto sulla strada, alle sparute auto che passavano, e
a un piccolo gruppetto di ragazzini (sui 12~13 anni) che dal lato
opposto di questa strada così poco trafficata stavano giocando.
Cercai di osservarli
meglio, perché qualcosa di strano stava avvenendo: non mi riusciva
di identificare il loro gioco, si poteva dire che stessero tirando
quattro calci a un pallone, ma erano lì che urlavano e si
inseguivano, senza che ci fosse alcun pallone fra di loro.
Chi mi stava accanto
mi rivolse la parola, e cominciammo una lunga dissertazione.
RT: «Cosa c’è che ti lascia così perplesso?»Io: «Loro, ovviamente.»RT: «Non hai mai visto dei ragazzini che giocano? Ma scusa: non sei tu quello che dice sempre di essere un gran giocherellone?»Io: «Sì, ma se dovessi gestire una cosa del genere, sarebbe probabilmente una scenetta di meno di un minuto per far impazzire qualche amico: “Ehi: che c’è? Non vuoi dare anche tu due calci al pallone?”, “Quale cazzo di pallone? Ma siete scemi voi o sono orbo io?”»RT: «Adesso che c’entra il pallone? Non vedi che cosa stanno facendo?»
Mi girai verso il
mio lato destro, ma non appena cominciai a farlo ne ottenni una
sensazione molto sgradevole, provando subito una paura incontenibile
di ciò che ci potesse essere lì, alla mia destra.
Abbassai lo sguardo
cercando di ritornare a guardare avanti a me, ma ormai avevo
intravisto un paio di gambe e piedi vicino a me, sulla destra. Anzi
no: non erano delle gambe o dei piedi, ma piuttosto delle gigantesche
zampe. Brutte, nere, pelose, sporche, storte, inquietanti.
Qualcosa di
mostruoso era accanto a me: adesso ne avevo il sentore, ma non avevo
il coraggio di guardarlo e ora, che ne avevo visto solo un breve
tratto, non sapevo neppure se avrei avuto il coraggio di scappare.
Sentii il cuore che
cominciava a battere più forte, cercai di concentrarmi sui ragazzini
che giocavano. L’immagine apparve sfocata per qualche istante (ebbi
tuttavia l’impressione che fosse stata la scarica di adrenalina per
la vista di quella mostruosità ad annebbiarmi, per qualche istante,
la vista), e in quel frangente mi resi conto di non riuscire a
delineare bene la figura di ciascuno di quei bambini.
L’impressione era
che ogni volta che provavo a guardarne uno in faccia, la mia vista
venisse deviata da qualcosa di più importante, non riuscendo a
focalizzarsi su un punto comune. Gli stessi vestiti: quando cercavo
di guardare un singolo ragazzino, appariva vestito con una felpa
verde, jeans e sneakers bianche e nere. Gli altri mi davano
l’impressione di abiti diversi (anzi, ero pure sicuro che fossero
maschi e femmine), ma se provavo a soffermare la mia concentrazione
su qualcun altro dei ragazzini, gli abiti che vedevo erano sempre la
medesima felpa, i medesimi jeans e le medesime sneakers.
Cercai di rilassarmi
e di lasciare che il cuore mi ritornasse a un regime di battito
normale. Tutto questo credo fosse durato solo pochi secondi, perché
chi mi era accanto ricominciò subito a parlare, mentre io stesi le
braccia in alto, poi mi portai le mani al collo grattandomi la nuca.
RT: «Tu sei troppo nervoso. Rilassati. Pensi che succederà qualcosa di brutto?»Io: «Non posso saperlo, ma ovviamente ritengo che no, non succederà niente di particolare. Perché me lo chiedi? C’è forse qualcosa che fa paura a te?»
Avevo notato come un
tono di voce strano in quest’ultima domanda, ed avevo cercato di
approfondire, soprattutto perché grattandomi la nuca avevo sentito
la catenina al collo, ma poi nel tirare giù le mani ho intrecciato
le dita e mi sono stiracchiato le braccia, accorgendomi sin da subito
di una cosa.
RT: «A me? Nulla. E a te? Quali sono le tue paure intrinseche?»Io: «Perché mai dovrei dirle a te?»
Stesi il collo verso
l’alto: intravedevo a malapena il tetto dell’edificio alle mie
spalle (doveva essere praticamente alto solo quanto il primo piano e
finire subito); sopra di noi il cielo appariva molto nuvoloso e con
degli strani riflessi giallo-rossicci piuttosto lontani.
Io: «Non mi hai risposto. Perché dovrei dirti quali sono le mie paure intrinseche? Perché vuoi sentire che io magari ho paura di morire, oppure di essere un pessimo genitore, o più semplicemente…»
riportai gli occhi
al cielo
Io: «… che magari ho paura del buio?»
Mi sembrò che il
cielo assumesse un maggior numero di riflessi giallo-rossicci, come
se si stesse avvicinando più velocemente il tramonto. Feci un
respiro profondo, cercai di rilassare il mio corpo e la mia mente,
poi improvvisamente stesi il mio braccio destro sul torace, e
successe.
I ragazzini
giocavano molto rumorosamente, e anche quando si facevano di lato e
passava una macchina c’era rumore, ma io lo stesso in lontananza
sentivo, come un debole sottofondo, quello che c’era veramente,
mentre sotto mano e braccio destri non c’era nessuna sensazione,
finché non feci un altro respiro profondo; mi alzai di colpo dalla
sedia: finalmente qualcosa c’era.
RT: «Che minchia stai facendo?»Io: «O magari pensi forse che io possa avere paura di te, non è vero?»
Pronunciando le
ultime tre parole, mi girai di scatto, guardando fisso sulla mia
destra: la terribile sensazione di paura, di disagio, di cuore in
gola ritornò fino in fondo, eppure io guardai lo stesso.
C’era una persona,
un uomo che appariva quasi normalissimo; indossava un assurdo paio di
pantaloni a frange nere da cowboy, e capii che l’immagine delle
brutte zampacce nere pelose era stata solo un’impressione.
Lo sconosciuto mi
guardò con stizza, praticamente dall’alto in basso, anche se era
seduto.
RT: «Qual è la cosa che più ti mette a disagio? Non vuoi dirmelo?»Io: «Perché tu ci possa fare qualcosa per rendermi più nervoso, più preoccupato, magari più impaurito? Scoprila!»
In questa fase il
vociare dei ragazzini si era interrotto. Feci di nuovo un respiro
profondo, cercando di assumere un’espressione minacciosa mentre
sbuffavo via l’aria dalle narici, infine mi girai di nuovo verso la
strada, verso i ragazzini che giocavano.
Tutto avvenne in un
attimo: stavo letteralmente ancora ruotando la testa e il busto in
direzione di quel punto della strada, quando lo vidi. Uno dei
ragazzini aveva in mano un grosso revolver.
Lo puntò in alto e
sparò un colpo: il rumore secco molto forte scosse l’aria, tutti
gli altri ragazzini sobbalzarono, poi partì un coro di urla di
giubilo.
Osservavo la scena
surgelato: molti altri ragazzini stavano tirando fuori delle pistole
dalle felpe, e nel giro di pochi istanti cominciarono anche loro a
sparare in aria.
Io: «Beh, sì: ammetto che trovarmi di fronte a delle armi da fuoco mi fa sentire un po’ a disagio, ma non credo che dei ragazzini che sparano a salve dovrebbero inquietarmi più di tanto…»
Quasi come a
risposta, il ragazzino che aveva sparato il primo colpo di pistola
abbassò il revolver e sparò in direzione di una ragazzina alla sua
sinistra. Quella, colpita in pieno volto, si accasciò a terra in una
pozza di sangue (e ora avevo la sensazione di un vestito bianco e una
gonna, macchiati di rosso).
Tutti gli altri
ragazzini continuavano a sparare con diverse armi: il rumore
somigliava a quello di un inquietante uscita di santo, anzi, negli
ultimi istanti era anche cominciato a crescere di intensità.
Una ragazzina
(stesso vestito bianco e gonna, gocce di sangue sul vestito) puntò
nella nostra direzione una Desert Eagle cromata, la sua pistolettata
risuonò talmente violenta da farmi sobbalzare, e inoltre sentii
chiaramente il proiettile sibilarmi a pochi centimetri dall’orecchio
sinistro.
Mi girai di nuovo in
direzione dello sconosciuto.
Io: «E questo cosa significa?»
I colpi di pistola
che risuonavano erano diventati insopportabili: ogni volta che una
pistola tirava un colpo, era peggio di una cannonata, ogni volta i
timpani mi saltavano e sentivo le orecchie iniziare a fischiare
fastidiosamente. Pensai di tapparmi le orecchie, ma non riuscivo a
muovere le braccia.
La strada risuonava
di colpi sempre più forti e ravvicinati, come un lungo tuono.
Guardai di nuovo lo sconosciuto.
Io: «Smettetela, altrimenti dovrò fare qualcosa che non ti piacerà.»
I colpi si
interruppero per qualche secondo, mentre lo sconosciuto mi diceva
solo una frase:
RT: «E che cosa vorresti fare?»
Ricominciò
immediatamente la sparatoria, ogni colpo sempre più forte, le
orecchie ormai mi facevano male e sentivo un fischio costante
piuttosto fastidioso. Quasi mi girava la testa, ma puntai caparbio un
piede in avanti.
Io: «Se tutte le armi improvvisamente si inceppassero?»
Stavo guardando lo
sconosciuto con un’espressione di puro odio e, dopo solo una
frazione di secondo, improvvisamente il rumore delle pistolettate
divenne un debole ticchettio di armi scariche.
Sentii le proteste
di alcuni dei ragazzini, e mi girai verso di loro: quattro giacevano
a terra, c’era molto sangue. Tutti i ragazzi in piedi (alcuni
sanguinavano dalle braccia) stavano guardando le loro pistole come se
improvvisamente si fossero trasformate in sculture di arte moderna.
Io: «Oppure quelle armi potrebbero diventare qualcosa di più interessante!»
Lo dissi stendendo
il braccio sinistro in avanti, verso il gruppetto di ragazzini che
immediatamente cominciò a scappare verso sinistra, raggiungendo il
fondo della strada: a questo punto i ragazzi a terra e il sangue
erano scomparsi. Anche le pistole erano sparite: al loro posto adesso
c’erano dei serpenti che li inseguivano.
RT: «Ma come hai…?»Io: «Fatto? Semplice: già da un pezzo sapevo che questo era solo un sogno. E come tale, so che mi basta poco per riprenderne il controllo, perché voi spiriti degli incubi continuate a fare sempre gli stessi errori.»RT: «Ma tu non stavi…»Io: «So che dovrei crescere, ma per ora mi rilassa molto dormire in compagnia di… beh: un bell’acchiappasogni, anche se talvolta mi scappa via. Perché voi incubi ne avete una fifa fottuta e, pur di non rischiare l’aggressione, ogni volta tentate ogni genere di cazzata. Questa però è stata proprio stupida, lasciatelo dire.»
Stesi il mio braccio
destro davanti a lui, girai la mano e oscillai le dita.
Io: «E poi… ma che spacchio sei? Non lo vedi? Niente orologio, e niente anello del nonno: cosa avevi in mente quando sei venuto a trovarmi nel mio subconscio? Non me li tolgo mai: in questo momento sto dormendo indossandoli entrambi! E dire che quando ho sentito di avere catenina al collo, ancora ancora stavo per convincermi che questo non fosse un sogno.»
Lo sconosciuto
sembrò assumere un’espressione contrita, nervosa.
RT: «Non finisce qui: anche io qui ho il controllo!»Io: «Sì: il controllo di questi ciufoli in carriola!»
Puntai
improvvisamente le mani in avanti, generando uno spostamento d’aria
così amplificato da far cadere a terra lo sconosciuto, ma anche io
mi sbilanciai e feci due passi, sentendomi quindi cadere in avanti.
Fu così che mi
svegliai, sul lettone della camera di Cadine. Ero in una posizione
molto scoordinata: prono, impastato tra le coperte, con le gambe
storte e il braccio destro steso verso il lato opposto del letto.
Aprii lentamente gli
occhi, ma l’oscurità era ovviamente totale.
Il rumore della
pioggia battente mi colpì le orecchie dopo qualche istante, mentre i
sensi uscivano dall’intorpidimento e, subito, un tuono basso, lungo
e profondo scosse la notte.
Nonostante
l’oscurità mi resi conto che la mano destra era andata a
riprendere la zampina di Rafael: durante la notte ero riuscito ad
allontanarlo (ma non a buttarlo giù dal letto: semplicemente lo
avevo spinto sull’altra piazza del lettone), però mentre sognavo e
cercavo di trovare un punto d’appoggio, dovevo essermi trovato in
uno stato di dormiveglia sufficiente per stendere il braccio e
ravanare cercandolo.
Allungai la mano
sinistra trovando il comodino, accendendo l’interruttore della
abat-jour, poi guardai sulla mia destra il “piccolo” (ehm: si fa
per dire) orsetto Rafael, cui tenevo ancora la zampa destra con la
mano.
Mi rialzai, sistemai
un po’ meglio le coperte, tirai a me il pupazzo e infine spensi la
luce mentre un altro tuono risuonava molto più forte di prima e
vicino a casa.
Ci pensai un
momento, poi diedi un leggero buffetto sul muso dell’orsacchiotto,
commentando:
Io: «Non ti preoccupare: anche se ti ho allontanato e ho quindi fatto avvicinare quello spirito di incubo, sono riuscito a tenere la situazione sotto controllo lo stesso. E se ci sono riuscito è stato anche perché tu comunque mi stavi vicino, per cui buona notte, Rafael: vedrai che adesso saranno solo sogni d’oro.»
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