lunedì 24 dicembre 2018

VLOG speciale natale: Lo sconosciuto



Ero seduto. Sembrava una sedia piuttosto ordinaria, di quelle che troveresti in una qualsiasi cucina di fascia media o medio-bassa. Ma eravamo sul marciapiedi, vicini al ciglio della strada: un po’ come quello che avviene nelle serate dei paesi siculi, in cui si cerca un minimo di refrigerio anche in questo modo; dall’illuminazione sembrava pomeriggio inoltrato (ma non vicini al tramonto).
C’era qualcuno sulla mia destra, quasi accanto a me: una figura irreale della quale percepivo l’ombra. Però non stavo guardando questa persona: il mio sguardo era rivolto sulla strada, alle sparute auto che passavano, e a un piccolo gruppetto di ragazzini (sui 12~13 anni) che dal lato opposto di questa strada così poco trafficata stavano giocando.
Cercai di osservarli meglio, perché qualcosa di strano stava avvenendo: non mi riusciva di identificare il loro gioco, si poteva dire che stessero tirando quattro calci a un pallone, ma erano lì che urlavano e si inseguivano, senza che ci fosse alcun pallone fra di loro.
Chi mi stava accanto mi rivolse la parola, e cominciammo una lunga dissertazione.
RT: «Cosa c’è che ti lascia così perplesso?»
Io: «Loro, ovviamente.»
RT: «Non hai mai visto dei ragazzini che giocano? Ma scusa: non sei tu quello che dice sempre di essere un gran giocherellone?»
Io: «Sì, ma se dovessi gestire una cosa del genere, sarebbe probabilmente una scenetta di meno di un minuto per far impazzire qualche amico: “Ehi: che c’è? Non vuoi dare anche tu due calci al pallone?”, “Quale cazzo di pallone? Ma siete scemi voi o sono orbo io?”»
RT: «Adesso che c’entra il pallone? Non vedi che cosa stanno facendo?»
Mi girai verso il mio lato destro, ma non appena cominciai a farlo ne ottenni una sensazione molto sgradevole, provando subito una paura incontenibile di ciò che ci potesse essere lì, alla mia destra.
Abbassai lo sguardo cercando di ritornare a guardare avanti a me, ma ormai avevo intravisto un paio di gambe e piedi vicino a me, sulla destra. Anzi no: non erano delle gambe o dei piedi, ma piuttosto delle gigantesche zampe. Brutte, nere, pelose, sporche, storte, inquietanti.
Qualcosa di mostruoso era accanto a me: adesso ne avevo il sentore, ma non avevo il coraggio di guardarlo e ora, che ne avevo visto solo un breve tratto, non sapevo neppure se avrei avuto il coraggio di scappare.
Sentii il cuore che cominciava a battere più forte, cercai di concentrarmi sui ragazzini che giocavano. L’immagine apparve sfocata per qualche istante (ebbi tuttavia l’impressione che fosse stata la scarica di adrenalina per la vista di quella mostruosità ad annebbiarmi, per qualche istante, la vista), e in quel frangente mi resi conto di non riuscire a delineare bene la figura di ciascuno di quei bambini.
L’impressione era che ogni volta che provavo a guardarne uno in faccia, la mia vista venisse deviata da qualcosa di più importante, non riuscendo a focalizzarsi su un punto comune. Gli stessi vestiti: quando cercavo di guardare un singolo ragazzino, appariva vestito con una felpa verde, jeans e sneakers bianche e nere. Gli altri mi davano l’impressione di abiti diversi (anzi, ero pure sicuro che fossero maschi e femmine), ma se provavo a soffermare la mia concentrazione su qualcun altro dei ragazzini, gli abiti che vedevo erano sempre la medesima felpa, i medesimi jeans e le medesime sneakers.
Cercai di rilassarmi e di lasciare che il cuore mi ritornasse a un regime di battito normale. Tutto questo credo fosse durato solo pochi secondi, perché chi mi era accanto ricominciò subito a parlare, mentre io stesi le braccia in alto, poi mi portai le mani al collo grattandomi la nuca.
RT: «Tu sei troppo nervoso. Rilassati. Pensi che succederà qualcosa di brutto?»
Io: «Non posso saperlo, ma ovviamente ritengo che no, non succederà niente di particolare. Perché me lo chiedi? C’è forse qualcosa che fa paura a te?»
Avevo notato come un tono di voce strano in quest’ultima domanda, ed avevo cercato di approfondire, soprattutto perché grattandomi la nuca avevo sentito la catenina al collo, ma poi nel tirare giù le mani ho intrecciato le dita e mi sono stiracchiato le braccia, accorgendomi sin da subito di una cosa.
RT: «A me? Nulla. E a te? Quali sono le tue paure intrinseche?»
Io: «Perché mai dovrei dirle a te?»
Stesi il collo verso l’alto: intravedevo a malapena il tetto dell’edificio alle mie spalle (doveva essere praticamente alto solo quanto il primo piano e finire subito); sopra di noi il cielo appariva molto nuvoloso e con degli strani riflessi giallo-rossicci piuttosto lontani.
Io: «Non mi hai risposto. Perché dovrei dirti quali sono le mie paure intrinseche? Perché vuoi sentire che io magari ho paura di morire, oppure di essere un pessimo genitore, o più semplicemente…»
riportai gli occhi al cielo
Io: «… che magari ho paura del buio?»
Mi sembrò che il cielo assumesse un maggior numero di riflessi giallo-rossicci, come se si stesse avvicinando più velocemente il tramonto. Feci un respiro profondo, cercai di rilassare il mio corpo e la mia mente, poi improvvisamente stesi il mio braccio destro sul torace, e successe.
I ragazzini giocavano molto rumorosamente, e anche quando si facevano di lato e passava una macchina c’era rumore, ma io lo stesso in lontananza sentivo, come un debole sottofondo, quello che c’era veramente, mentre sotto mano e braccio destri non c’era nessuna sensazione, finché non feci un altro respiro profondo; mi alzai di colpo dalla sedia: finalmente qualcosa c’era.
RT: «Che minchia stai facendo?»
Io: «O magari pensi forse che io possa avere paura di te, non è vero?»
Pronunciando le ultime tre parole, mi girai di scatto, guardando fisso sulla mia destra: la terribile sensazione di paura, di disagio, di cuore in gola ritornò fino in fondo, eppure io guardai lo stesso.
C’era una persona, un uomo che appariva quasi normalissimo; indossava un assurdo paio di pantaloni a frange nere da cowboy, e capii che l’immagine delle brutte zampacce nere pelose era stata solo un’impressione.
Lo sconosciuto mi guardò con stizza, praticamente dall’alto in basso, anche se era seduto.
RT: «Qual è la cosa che più ti mette a disagio? Non vuoi dirmelo?»
Io: «Perché tu ci possa fare qualcosa per rendermi più nervoso, più preoccupato, magari più impaurito? Scoprila!»
In questa fase il vociare dei ragazzini si era interrotto. Feci di nuovo un respiro profondo, cercando di assumere un’espressione minacciosa mentre sbuffavo via l’aria dalle narici, infine mi girai di nuovo verso la strada, verso i ragazzini che giocavano.
Tutto avvenne in un attimo: stavo letteralmente ancora ruotando la testa e il busto in direzione di quel punto della strada, quando lo vidi. Uno dei ragazzini aveva in mano un grosso revolver.
Lo puntò in alto e sparò un colpo: il rumore secco molto forte scosse l’aria, tutti gli altri ragazzini sobbalzarono, poi partì un coro di urla di giubilo.
Osservavo la scena surgelato: molti altri ragazzini stavano tirando fuori delle pistole dalle felpe, e nel giro di pochi istanti cominciarono anche loro a sparare in aria.
Io: «Beh, sì: ammetto che trovarmi di fronte a delle armi da fuoco mi fa sentire un po’ a disagio, ma non credo che dei ragazzini che sparano a salve dovrebbero inquietarmi più di tanto…»
Quasi come a risposta, il ragazzino che aveva sparato il primo colpo di pistola abbassò il revolver e sparò in direzione di una ragazzina alla sua sinistra. Quella, colpita in pieno volto, si accasciò a terra in una pozza di sangue (e ora avevo la sensazione di un vestito bianco e una gonna, macchiati di rosso).
Tutti gli altri ragazzini continuavano a sparare con diverse armi: il rumore somigliava a quello di un inquietante uscita di santo, anzi, negli ultimi istanti era anche cominciato a crescere di intensità.
Una ragazzina (stesso vestito bianco e gonna, gocce di sangue sul vestito) puntò nella nostra direzione una Desert Eagle cromata, la sua pistolettata risuonò talmente violenta da farmi sobbalzare, e inoltre sentii chiaramente il proiettile sibilarmi a pochi centimetri dall’orecchio sinistro.
Mi girai di nuovo in direzione dello sconosciuto.
Io: «E questo cosa significa?»
I colpi di pistola che risuonavano erano diventati insopportabili: ogni volta che una pistola tirava un colpo, era peggio di una cannonata, ogni volta i timpani mi saltavano e sentivo le orecchie iniziare a fischiare fastidiosamente. Pensai di tapparmi le orecchie, ma non riuscivo a muovere le braccia.
La strada risuonava di colpi sempre più forti e ravvicinati, come un lungo tuono. Guardai di nuovo lo sconosciuto.
Io: «Smettetela, altrimenti dovrò fare qualcosa che non ti piacerà.»
I colpi si interruppero per qualche secondo, mentre lo sconosciuto mi diceva solo una frase:
RT: «E che cosa vorresti fare?»
Ricominciò immediatamente la sparatoria, ogni colpo sempre più forte, le orecchie ormai mi facevano male e sentivo un fischio costante piuttosto fastidioso. Quasi mi girava la testa, ma puntai caparbio un piede in avanti.
Io: «Se tutte le armi improvvisamente si inceppassero?»
Stavo guardando lo sconosciuto con un’espressione di puro odio e, dopo solo una frazione di secondo, improvvisamente il rumore delle pistolettate divenne un debole ticchettio di armi scariche.
Sentii le proteste di alcuni dei ragazzini, e mi girai verso di loro: quattro giacevano a terra, c’era molto sangue. Tutti i ragazzi in piedi (alcuni sanguinavano dalle braccia) stavano guardando le loro pistole come se improvvisamente si fossero trasformate in sculture di arte moderna.
Io: «Oppure quelle armi potrebbero diventare qualcosa di più interessante!»
Lo dissi stendendo il braccio sinistro in avanti, verso il gruppetto di ragazzini che immediatamente cominciò a scappare verso sinistra, raggiungendo il fondo della strada: a questo punto i ragazzi a terra e il sangue erano scomparsi. Anche le pistole erano sparite: al loro posto adesso c’erano dei serpenti che li inseguivano.
RT: «Ma come hai…?»
Io: «Fatto? Semplice: già da un pezzo sapevo che questo era solo un sogno. E come tale, so che mi basta poco per riprenderne il controllo, perché voi spiriti degli incubi continuate a fare sempre gli stessi errori.»
RT: «Ma tu non stavi…»
Io: «So che dovrei crescere, ma per ora mi rilassa molto dormire in compagnia di… beh: un bell’acchiappasogni, anche se talvolta mi scappa via. Perché voi incubi ne avete una fifa fottuta e, pur di non rischiare l’aggressione, ogni volta tentate ogni genere di cazzata. Questa però è stata proprio stupida, lasciatelo dire.»
Stesi il mio braccio destro davanti a lui, girai la mano e oscillai le dita.
Io: «E poi… ma che spacchio sei? Non lo vedi? Niente orologio, e niente anello del nonno: cosa avevi in mente quando sei venuto a trovarmi nel mio subconscio? Non me li tolgo mai: in questo momento sto dormendo indossandoli entrambi! E dire che quando ho sentito di avere catenina al collo, ancora ancora stavo per convincermi che questo non fosse un sogno.»
Lo sconosciuto sembrò assumere un’espressione contrita, nervosa.
RT: «Non finisce qui: anche io qui ho il controllo!»
Io: «Sì: il controllo di questi ciufoli in carriola!»
Puntai improvvisamente le mani in avanti, generando uno spostamento d’aria così amplificato da far cadere a terra lo sconosciuto, ma anche io mi sbilanciai e feci due passi, sentendomi quindi cadere in avanti.
Fu così che mi svegliai, sul lettone della camera di Cadine. Ero in una posizione molto scoordinata: prono, impastato tra le coperte, con le gambe storte e il braccio destro steso verso il lato opposto del letto.
Aprii lentamente gli occhi, ma l’oscurità era ovviamente totale.
Il rumore della pioggia battente mi colpì le orecchie dopo qualche istante, mentre i sensi uscivano dall’intorpidimento e, subito, un tuono basso, lungo e profondo scosse la notte.
Nonostante l’oscurità mi resi conto che la mano destra era andata a riprendere la zampina di Rafael: durante la notte ero riuscito ad allontanarlo (ma non a buttarlo giù dal letto: semplicemente lo avevo spinto sull’altra piazza del lettone), però mentre sognavo e cercavo di trovare un punto d’appoggio, dovevo essermi trovato in uno stato di dormiveglia sufficiente per stendere il braccio e ravanare cercandolo.
Allungai la mano sinistra trovando il comodino, accendendo l’interruttore della abat-jour, poi guardai sulla mia destra il “piccolo” (ehm: si fa per dire) orsetto Rafael, cui tenevo ancora la zampa destra con la mano.
Mi rialzai, sistemai un po’ meglio le coperte, tirai a me il pupazzo e infine spensi la luce mentre un altro tuono risuonava molto più forte di prima e vicino a casa.
Ci pensai un momento, poi diedi un leggero buffetto sul muso dell’orsacchiotto, commentando:
Io: «Non ti preoccupare: anche se ti ho allontanato e ho quindi fatto avvicinare quello spirito di incubo, sono riuscito a tenere la situazione sotto controllo lo stesso. E se ci sono riuscito è stato anche perché tu comunque mi stavi vicino, per cui buona notte, Rafael: vedrai che adesso saranno solo sogni d’oro.»

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