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domenica 24 dicembre 2017

VLOG speciale: Katherine (natale 2017)



Se solo si potesse osservare la gente, dentro, si scoprirebbero tante cose, tantissime cose che non sempre traspaiono fuori.
All’esterno c’è un mondo, ma all’interno tantissimi altri fanno la loro apparizione; chissà quante altre cose sono nascoste dietro una corteccia esterna, e chissà quanti sono realmente in grado di vederle, di sentirle, di accorgersene.

Vigilia di natale, una gelida sera di pioggia. Erano quasi le undici.
Nel mondo esistono tante cose, tanti oggetti, tante persone, tanti sentimenti, esiste il caldo, esiste il freddo; esiste il buio, esiste la luce.
Seduto di fronte alla scrivania, la osservavo. Sorridevo, e lei sapeva che sorridevo, e sorrideva anche lei.
La sua camera da letto poteva sembrare scarna, ma invece era molto ricca: candide pareti avvolgevano i suoi sogni, pochi mobili lasciavano trovarsi nel momento del bisogno, con i loro angoli arrotondati raddolcivano la loro esistenza; una oscura scrivania in stile da ufficio, di legno con un disegno di metà anni ‘50 si stagliava maestosa in mezzo a quell’opprimente e seducente pallore.
Quello era il suo rifugio, il suo piccolo mondo sicuro, lontano dal pericoloso e sconosciuto mondo esterno.
Il suo rifugio, più vicino al suo cuore.
Dolci capelli dorati si sparpagliavano sul cuscino, il suo viso illuminato dal lampadario assumeva una radiosità simile a quella della luna. Mi piaceva, molto.
I suoi bellissimi occhi azzurri si nascondevano debolmente nella penombra delle lenti scure degli occhiali, occhiali che si armonizzavano perfettamente sul suo viso, quasi come una naturale continuazione di esso.
La conoscevo da due anni, ormai.
Forse non sono mai stato una persona dolce, e nemmeno lei, o forse siamo sempre stati tutti e due molto speciali, ma di certo eravamo (e siamo tuttora) molto simili.
La sua infanzia non le aveva concesso molto, e purtroppo la sua famiglia, dopo l’incidente ormai più di vent’anni fa… beh: non possiamo dire che abbia cercato di fare il possibile per migliorare qualcosa. È arrivata ai 25 anni praticamente da sola, e la ammiro per questo, ma l’amore è un sentimento complicato: io ascoltavo i suoi sogni, la proteggevo dalle sue paure e le parlavo delle mie, e per quanto di solito mi senta a disagio a rendermi tenero e malleabile, con lei mi riusciva benissimo, come se fosse naturale comportarsi con lei così e con gli altri in qualche altro modo.
Moses, il mio gatto (un magnifico persiano nero), non si era mai avvicinato a nessuno; persino fra me e lui c’era un rapporto di amicizia molto particolare, e quando portai Kat a casa, fu la prima volta che lo vidi avvicinarsi spontaneamente ad una persona e farsi accarezzare.
Gli animali sono molto più intelligenti dell’uomo, sicuramente.
E a lei era piaciuto molto, accarezzare Moses. Aveva conosciuto un sentimento nuovo, un qualcosa che prima non aveva forse mai provato, qualcosa che le piaceva molto, anche se forse lo temeva.
Avevo notato una cosa, più di una volta, a cui non avevo dato un alto valore, anche se mi lasciava una strana sensazione di vuoto: c’era qualcosa che mancava nel suo “rifugio”. Eppure ho sempre tralasciato.
Come ho fatto ad essere così stupido?
Il contatto degli oggetti è molto importante, il tatto è il senso con cui si prende il mondo in mano, e lo si rigira di qua e di là per decidere quale parte si vuole usare.
Distesa sul letto, accarezzava l’orsacchiotto che le avevo appena regalato. Era la prima volta che riceveva un peluche in regalo.
Quella strana sensazione che mancasse qualcosa nel suo rifugio ora non mi perseguitava più… avevo iniziato a rendermi conto che forse ne aveva veramente bisogno quando avevo visto il suo sorriso mentre accarezzava Moses, o già quando lei teneva la mano sinistra ferma e Moses gli passava sotto accarezzandosi da solo, come fanno molti gatti (ma mai Moses).
Improvvisamente lo scatolotto nero sulla scrivania (mi ricordava una sorta di cellulare) si mise a suonare, un fischio roco e continuo, come un tono di occupato al telefono. Lei quasi non si scompose: «Premi il tasto in alto a destra… quel maledetto affare sono mesi che devo farlo riparare: molto meglio il mio piccolo Rym»
“Piccolo” era difficile da considerarsi: Rym, il suo magnifico labrador nero come la pece. Passava buona parte del tempo a riposare in giardino o ad annusare per svariati minuti gli ospiti; un cane che ben raramente avevo sentito abbaiare dietro alle farfalle o ai passanti.
Ho sempre fatto spettacolo con il contenuto delle mie tasche, alché trovare un cacciavite non fu difficile: «Se vuoi gli posso dare un’occhiatina: ho dietro qualche attrezzo.»
Una volta avevo visto Rym e Moses annusarsi a vicenda. Moses non aveva mai visto un cane, e Rym non aveva mai visto un gatto, ed infatti avevano fatto amicizia quasi subito.
Lo ripeto: gli animali sono molto più intelligenti dell’uomo.
«Questo è bianco?» mi chiese, alludendo all’orsetto.
Ero intento ad osservare il complicato intreccio di fili e circuiti del beeper, ma alzai lo sguardo verso di lei: «Sì.»
Bianco, talvolta bianco fluttuante come le nuvole. Forse uno dei concetti più difficili di questo mondo. Eppure il bianco fluttuante delle nuvole lo conosceva…
«È morbido... caldo. È forse questo il valore del bianco?»
«Moses è nero, ed è caldo, morbido. Le pareti della tua cameretta sono fredde e dure… eppure sono bianche. Bianco e nero sono dei colori speciali, e troppo difficili, anche per me.»
Aveva imparato quasi tutti i colori, persino il grigio delle nubi prima e durante il temporale, ma ancora non ero riuscito a farle comprendere la differenza fra il bianco ed il nero. Ma io conoscevo la differenza fra il bianco e il nero? La ho mai saputa? Qualcuno conosce veramente la differenza fra il bianco e il nero?
Finalmente mi districai nel groviglio dello scatolotto, e sbottai: «Ok, ci sono riuscito: per un bel po’ la pianterà di suonare la sveglia nei momenti meno opportuni, però cerca di starci attenta e non usarlo come pallina da far rimbalzare in terra.» Lei sbottò in una risata soffocata, e io richiudendo quell’ammenicolo continuai: «Ora è tardi, sarebbe ora di andare a dormire…»
Forse bianco e nero non hanno a che vedere con calore e morbidezza…
Si alzò leggermente sulla schiena: «Si, decisamente: ho sonno.» s’interruppe sbadigliando pigramente. «Comunque domani possiamo stare anche un po’ di più a letto, quindi se vuoi possiamo anche continuare a parlare. O fare qualcos’altro… Anzi: cosa hai deciso per capodanno?»
«Mah… È stata una giornata pesante, per cui preferisco trascinarmi a casa e concludere questa giornata trascorsa correndo a destra e a manca…»
Mi avvicinai al letto per salutarla e lei, alzando l’orsetto, disse: «Sì, ok, ma… lui dove posso lasciarlo? Sul comodino?»
Una volta mi disse di aver paura del buio.
Tornato a casa, avevo trascorso almeno due ore piangendo.
«Perché non lo tieni? Ti farà compagnia…»
Abbiamo una passione in comune: la musica di Oldfield, che riesce a farla sognare, persino se si trova in mezzo alla strada, in una stazione della metropolitana o nella confusione del mercato.
Mise gli occhiali sul comodino, poi – con un’espressione serafica – si spostò più indietro verso le coperte, cingendo l’orsetto col braccio destro. Mi ispirava un gran tenerezza in quel momento; le presi la mano sinistra e mi avvicinai, baciandola delicatamente sulle labbra.
Ogni tanto (specie nei primi tempi che ci conoscevamo) mi aveva stupito: appena entravo in casa, mi salutava prima ancora che potessi aprire bocca e, se ero con un amico, mi chiedeva subito: «Chi c’è con te?»
Avevano cercato di insegnarle il linguaggio della danza, ma non ci erano riusciti; in compenso io ero riuscito a farle capire il linguaggio della musica.
E aveva imparato la danza, o piuttosto il mimo, o una specie di via di mezzo; aveva dato una sua interpretazione al senso della musica. Forse a qualcuno non piaceva, poteva sembrare quasi ridicolo, ma a me piaceva molto, e anche a lei, soprattutto a lei.
Una cosa in particolare mi legava intensamente a lei: mi faceva sognare, ma non nel senso comune del sogno, del susseguirsi di immagini, suoni… No. Non era la “sensazione” del sogno, era più il “sentimento” del sogno: mi sentivo un sognatore.
Non so come spiegarlo, una sensazione magnifica, ma allo stesso tempo violenta, come la spinta che ti attacca al sedile quando l’aereo decolla.
Il bianco. Ed il nero.
Non sono sicuro di aver capito esattamente come lei si sentisse quando stava con me, ma ho notato che era quasi sempre in grado di capire i miei sentimenti, il mio stato d’animo. Mentre andavo verso la porta e spegnevo la luce, ero preoccupato, perché temevo che potesse capire quello che cercavo in tutti i modi di evitare, che ho sempre cercato di evitare.
Lo giuro: ho sempre tentato di non pensarci nemmeno, tutte le volte che mi veniva lontanamente in mente, ripensavo a quando mi aveva detto di aver paura del buio, e la mia mente si bloccava di colpo, come un sasso che cade nel catrame.
Ma quella volta non mi riuscì di nascondere le mie preoccupazioni, e lei subito sbottò: «Cosa succede? Perché sei così teso?".
Mi avvicinai al letto e, cercando quasi disperatamente di mascherare la mia preoccupazione, osservai: «Niente, stavo ripensando al bianco ed al nero: è un concetto molto difficile da capire…»
Ma lei mi interruppe, stese il braccio in avanti (e io subito mi feci afferrare la mano, che strinse fermamente) e si alzò sulla schiena: «Io ho capito, invece, e da molto tempo. Ho capito anche che non volevi dirmelo chiaramente, ma stai tranquillo, perché è naturale.»
«No, io non volevo che…»
Lei continuò, imperterrita, praticamente senza ascoltarmi: «Il bianco è la compagnia che vedi intorno a te, mentre il nero è la mia profonda solitudine, la sola cosa che – dopo l’incidente – vedo intorno a me. La solitudine e il buio di cui ho paura. Anche in questo momento…»
Stava piangendo.
E anche io.
La abbracciai, forte.
La amavo.
La amo.

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