Orario di scuola, o quasi: poco prima delle otto di mattina.
Fuori da scuola. Dove ci si incontra, si parla, si salutano i compagni, si pensano le ultime nozioni per quell'interrogazione della terza ora, e intanto ci si consulta per quel compito in classe della settimana prossima. E intanto arriva la compagna di classe: «Ehi, Melissa! Ciao».
Poi un botto.
Poi il fumo.
Poi il sangue.
Poi le urla, poi le sirene dei mezzi di emergenza, poi le voci concitate. «Passami il collare cervicale» «Dammi la barella a cucchiaio» oppure «Le garze, che dobbiamo fermare l'emorragia, dai!»
Poi il silenzio.
Il silenzio è quello più inquietante. Perché è nel silenzio che rifletti, che senti la tua mente tirare le somme. Nel silenzio ti rendi conto di quello che è successo. Ed è un meccanismo, perché nel silenzio ti rendi conto che una tua compagna di classe non c'è più, e tutto quello che ti resta è solo il silenzio, perché non ci sono parole, non ci sono lacrime, non c'è un senso.
E neanche io ho parole. Perché non ci sono parole per esprimere la mia vicinanza alla famiglia e agli amici di Melissa Bassi, ma sopratutto perché NON VOGLIO esprimere parole su chi si è macchiato di questo vile attentato, per non dargli lo spazio che va cercando.
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